Come desidero e attendo il Purgatorio, ci starei per l’eternità!

Questa espressione della Serva di Dio Enrichetta Beltrame Quattrocchi (6 aprile 1914 – 16 giugno 2012), ultima figlia dei Beati Coniugi Luigi e Maria, rappresenta una prova chiara ed esaltante della tensione umana e spirituale di questa donna di fede, instancabile annunciatrice e operosa collaboratrice del Vangelo, che avvertiva con straordinaria sensibilità ed intensità la forza trasformante della speranza cristiana quale interprete e motore della storia: una storia destinata, dalla lungimirante e provvidenziale sapienza di Dio, a realizzarsi definitivamente – contro ogni altra possibilità – solo attraverso il vittorioso compimento della sua volontà. A commento di quest’espressione della Serva di Dio desideriamo in questo articolo avvalerci del pensiero particolarmente illuminante del Cardinale John Henry Newman, canonizzato il 13 ottobre 2019, tratto da uno dei suoi primi sermoni – «La religione del giorno» (1832) -, che sembra parafrasare la vita e la testimonianza di questa esemplare figura di laica cristiana. Enrichetta Beltrame Quattrocchi è stata una donna vera e libera da tutto ciò che apparteneva allo spirito mondano: persino da tutto ciò che si nascondeva dietro apparenze di autentica religiosità e amore alla Chiesa. Ella visse interamente e unicamente per rendere maggior gloria a Dio e non per ottenere la gloria degli uomini, nella quale spesso si nascondono le tracce del maligno. Con la sua vita e le sue scelte la Serva di Dio Enrichetta negò l’inganno di una religione modellata secondo gli uomini: vale a dire un “Cristianesimo falso perché senza la croce” e perciò tiepido, superficiale e limitato all’orizzonte puramente terreno delle convenienze umane. La grazia – tanto necessaria alla salvezza – non può essere accolta senza corrispondere ad essa la coscienza della gravità del peccato, il dolore per averlo commesso, la necessità di rifiutarlo con tutte le forze e di ripararne le conseguenze, l’impegno ad una sequela più coerente che richiede la rinuncia e lo sforzo: diversamente è grazia senza Cristo. Per Enrichetta vivere il Vangelo nella sua integralità significa “andare controcorrente”. Significa cercare di accordare insieme due aspetti che sono entrambi inevitabilmente essenziali, anche se uno di essi però non riesce gradito alla comune sensibilità degli uomini: da una parte il desiderio della cortesia, della delicatezza, della consolazione e della reciproca benevolenza; e dall’altra il dovere di disapprovare tutto ciò che banalizza e relativizza la verità e la giustizia di Cristo, conducendo inevitabilmente verso una religione fatta dall’uomo: una religione che predilige i principi mondani contravvenendo allo spirito autentico e rivoluzionario del Vangelo che si caratterizza invece per timor di Dio, dedizione per il suo servizio, rifiuto categorico del peccato, assenso alla dottrina, retto uso dei mezzi per i fini più importanti, obbedienza alla Chiesa. Enrichetta, pur provenendo da ambito borghese, come già la sua famiglia antepose ai valori secolari innanzitutto l’esempio di fede dei suoi genitori e si riten ne di dover essere custode e prosecutrice della loro testimonianza: una testimonianza pervasa da una chiara e forte critica evangelica al mondo e votata “senza riserve” a manifestare con generosità e fedeltà il dono della grazia di Cristo nei pensieri, nelle parole, nelle relazioni e nelle opere. Lo stesso Newman infatti riteneva che, senza questa testimonianza, la fede non è altro che una “religione del mondo” che tende a dominare quando non si è «spinti dall’amore della verità, bensì sotto l’influsso dei tempi», confondendo la venuta di Cristo con il corso umano delle cose. Pertanto quando gli uomini «hanno sacrificato la Verità ai vantaggi» non si sono resi conto che per essere salvati dalla grazia di Dio è necessario sforzarsi di scegliere la porta stretta e la via angusta (cf Mt 7,14). Al contrario facilmente essi pensano che «non occorre spaventarci, che Dio è un Dio di misericordia, che basta emendarsi per cancellare le trasgressioni, che il mondo, tutto sommato, è ben disposto verso la religione, che non è bene eccedere nella serietà (…)». Se è vero che «la pace dello spirito, la tranquillità della coscienza e la letizia dell’espressione rappresentano un dono del Vangelo e il distintivo del cristiano», Newman affermava però che «i medesimi effetti possono derivare da cause ben diverse»: «la pace di Dio» e «la calma dell’uomo di mondo». Enrichetta attingeva la «pace dello spirito» dalla vita di preghiera e la «tranquillità di coscienza» dalla “fedeltà nel minimo”; dal retto adempimento dei propri doveri; dalla paziente accoglienza delle difficoltà e delle sofferenze; dall’instancabile azione di orientamento delle coscienze e di aiuto nel bisogno: tutto questo vissuto nel santo timore di Dio, che consiste nella sensibile e puntuale attenzione a non trascurare gli appelli della volontà divina e nell’avere un’incrollabile fiducia nella sua misericordia: in una parola “mettere Dio a capotavola”.  A tal proposito per Newman diventa necessario riconoscere che: «Il  timor di Dio è il principio della sapienza, fino a quando non vedrete Dio come un fuoco consumatore, e non vi avvicinerete a Lui con riverenza e con santo timore, per il motivo di essere peccatori, non potrete dire di essere nemmeno in vista della porta stretta. Il timore e l’amore devono andare insieme; seguitate a temere, seguitate adamare fino all’ultimo giorno della vostra vita». Da questa profonda conoscenza di Dio segue il riconoscimento della propria peccaminosità e la fiducia nella misericordia: «Finché non conoscerete il peso delle vostre colpe, e non semplicemente con la fantasia, ma in pratica, non semplicemente per confessarle con una frase di formale contrizione ma quotidianamente e nel segreto del vostro cuore, non potrete accogliere l’offerta di misericordia che il Vangelo vi porge attraverso la morte di Cristo». La coscienza della peccaminosità dell’uomo e della conseguente offerta della misericordia di Dio in Cristo si devono comporre in un armonico rapporto che conduce l’anima cristiana all’abbandono amoroso a Dio e al deciso impegno per il bene. Enrichetta non dava per scontato che il valore del sacrificio di Cristo per la salvezza dell’uomo non viene esaltato solo dalla coscienza del bisogno che egli ha di affidarsi alla sua misericordia; ma anche dal progredire al tempo stesso nelle “opere della misericordia”: poveri, ammalati, disorientati, sfiduciati, discriminati, privi di dignità e di speranza… costituirono per lei il campo umano in cui suscitare la luce e la forza trasformante dello Spirito che guida e solleva per restituire al Padre ciò che gli appartiene da sempre. Ed è appunto in questo senso che si possono interpretare queste ultime parole di Newman: «La vostra conoscenza delle colpe aumenterà con l’aumentare della visione della misericordia di Dio nel Cristo. È questa la vera condizione cristiana e la massima somiglianza alla calma del Cristo e al suo placido sonno durante la tempesta cui sia possibile giungere; non saranno la perfetta gioia e la perfetta certezza che appartengono al cielo, ma una profonda rassegnazione alla volontà di Dio, un abbandono di noi stessi, corpo e anima, a Lui; senza dubbio nella speranza di essere salvi, ma fissando gli occhi più su Lui che su noi stessi, vale a dire, agendo per la Sua gloria, cercando di compiacerlo, dedicandoci a Lui con virile ubbidienza e intensità di buone opere». 

                 Di P. Massimiliano Noviello OFMCap Postulatore delle Cause dei Santi