il mestolino n9

Negli anni 70 frequentavo spesso casa Beltrame per don Tarcisio di cui ero stato alunno e che, come me, operava nello scoutismo cattolico. Durante quelle visite, incontravo spesso Enrichetta: insieme parlavamo di tante tematiche e affrontavamo anche temi spirituali. Enri- chetta appariva come una persona normale: non si notavano mai esagerazioni nei suoi discorsi o nel suo atteggiamento, ogni suo intervento era contraddistinto da misura e saggezza. La Be­atificazione dei suoi genitori fu motivo di grande gioia ma un così importante riconoscimento, in questa donna di profonda fede e testimone privilegiata della loro santità di vita, non ha mai dato luogo ad alcuna esagerazione di alcun genere, né mai si riscontravano in lei atteggiamenti di superbia o di superiorità nei confronti degli altri ma piuttosto un profondo rispetto verso il prossimo e verso la realtà della Chiesa.

Determinata a conservare fino alla fine l’unità della famiglia, godeva del profondo rispetto del fratello don Tarcisio che, passato dal clero di Genova a Roma nel 1952, ritornò a vivere nell’appartamento di famiglia ed ella amorevolmente assistette fino alla dipartita al cielo di lui.

Proprio don Tarcisio vedeva incarnata in Enrichetta la virtù cristiana della Speranza: i primi cristiani dipingevano questa virtù teologale come un’àncora, un’àncora fissa nella riva dell’Aldilà. E il cuore di Enrichetta era ancorato in quella riva che i suoi Beati genitori testimoniavano di continuo. Proprio recentemente Papa Francesco ha detto che la Speranza è la più umile delle virtù perché si nasconde nella vita, la più rischiosa perché spinge a dare tutto a Dio; Enrichetta, disponibile a offrire a Dio tutta la sua vita, ha sempre orientato le sue scelte all’offerta di sé: la sua dedi­zione alle opere di misericordia corporali e spirituali nascevano dall’esempio ricevuto dai genitori di una fede che si manifesta visibilmente, poiché – scrive san Giacomo – “la fede senza le opere è morta”.

di Elena Festa